Report dall’India: nuovi capitoli

14 febbraio 2016

Nuove pagine dei report dall’India che riceviamo dai nostri volontari Irene Giorgi e Massimo Bettini, partiti il 26 dicembre scorso per verificare progetti e sostegni a distanza, incontrare i nostri referenti e i bambini sostenuti. Resteranno fino a marzo, stanno facendo un lavoro importante e intenso. VI racconteremo, vi racconteranno al loro ritorno. Li seguiamo anche sulla nostra pagina Facebook Bhalobasa Onlus con l’hashtag #conmassimoeirene.

Martedì 2 febbraio

Stamani siamo partiti per passare tre giorni in un posto chiamato Shantinagar, al confine con lo stato del Jharkhand. Siamo ospiti di un prete in una parrocchia in collina, fra foreste e villaggi, con vista su un lago bellissimo dovuto a una grande diga. Qui accanto c’è un lebbrosario fondato e gestito dalle suore di madre Teresa. Oggi è una giornata calda: qui la temperatura è più alta e ha raggiunto circa 30 gradi, stanotte abbiamo dormito con le finestre aperte e solo il lenzuolo (fino a ieri avevamo due coperte di lana!). Quando viene sera è tutto buio e silenzioso, si sentono solo rumori di animali, ogni tanto un muggito, un belato, un latrato, ma anche i versi delle iene e degli sciacalli che vivono nelle foreste qui intorno, e che a volte la notte si avvicinano un po’ di più alle case, e quelli di uccelli e di insetti. Mentre eravamo a letto si sentiva cantare in lontananza, forse una festa di matrimonio in qualche villaggio vicino: qui in queste occasioni speciali fanno delle rappresentazioni teatrali cantate che durano quasi tutta la notte, e poi ogni tanto si sentiva il canto del muezìn, anche quello per fortuna lontano.

Mercoledì 3 febbraio

Stamattina abbiamo visitato il lebbrosario. Un posto bello, come tutti quelli delle Missionarie della Carità. Ambienti ordinati, tutto perfettamente pulito, all’interno e all’esterno, e ottime attrezzature, specie per gli standard di qui: due ambulanze e un camion quasi nuovi, un trattore, un generatore ecc. In questa zona la lebbra è ancora diffusa e qui tre volte alla settimana ci sono due dottoresse (suore) che visitano i pazienti che vengono dai villaggi. Ogni volta tra le cento e le duecento persone vengono a fare i controlli e a prendere le medicine. Chi viene per la prima volta viene ospitato in un edificio a parte, viene fatta la diagnosi e cominciata la terapia. La maggior parte delle volte i pazienti si devono trattenere vari giorni perché hanno ferite, specialmente ai piedi e alle mani (i malati di lebbra perdono prima di tutto la sensibilità alle estremità, per cui, non sentendo più il dolore, si feriscono senza accorgersene, oppure se la malattia è ad uno stadio più avanzato c’è la compromissione delle dita di piedi e mani). Prima di rimandarli a casa le suore aspettano che siano guarite le ferite, perché a casa tornerebbero subito a lavorare e potrebbero prendere delle infezioni.
Alcuni arrivano in condizioni gravi, con infezioni già estese e devono essere amputati alle dita dei piedi, delle mani, ma a volte a tutta la gamba. Ogni quindici giorni vengono dei chirurghi a fare queste operazioni, in una sala operatoria ben attrezzata. Domani è giorno di operazioni e ci sono diciassette interventi previsti. Una volta all’anno per quattro o cinque giorni, qui vengono anche dei chirurghi specializzati dalla Francia o dalla Germania per fare operazioni più delicate alle mani.
Abbiamo visitato la casa dove abitano persone che sono state respinte dalla famiglia a causa della loro malattia: ci sono una quarantina di donne, alcune anziane, e altrettanti uomini. Loro ormai non hanno più la lebbra, perché sono state curati, ma parecchi hanno gravi menomazioni dovute al fatto che sono venuti qui quando la malattia era ad uno stadio avanzato e aveva già fatto danni gravi.
Poi c’è naturalmente il convento con tredici suore, due delle quali europee, un grande terreno coltivato e un piccolo cimitero: oggi c’era il funerale di una paziente anziana morta ieri. C’è anche una casa con una ventina di bambini piccoli orfani oppure i cui genitori sono malati e non possono prendersene cura, con cui abbiamo passato un paio d’ore.
Molti dei ricoverati lavorano, ma questo lebbrosario dà lavoro anche a molti abitanti del villaggio qui accanto: nei campi, nella manutenzione, nelle pulizie, nelle cucine dove si preparano i pasti per tutti; poi c’è un ciabattino che confeziona sandali su misura per i piedi deformati o amputati, il sarto, ci sono gli infermieri, il maestro e le tate dei bambini, gli addetti alle stalle, alle lavanderie ecc. Ora ci sono anche diversi muratori che lavorano alla costruzione di nuovi edifici perché questo posto è stato fondato negli anni Sessanta e alcuni stabili sono diventati vecchi. Verranno abbattuti e sostituiti da quelli nuovi.
Le persone che incontriamo nel lebbrosario sono tutte molto socievoli, salutano, si lasciano fotografare volentieri e si respira un’aria di serenità.

Giovedì 4 febbraio

Stamani siamo ritornati a giocare con i bambini del lebbrosario. Di pomeriggio invece abbiamo visitato il collegio maschile e femminile e la scuola cattolica che si trovano vicino alla chiesa e alla casa del prete. Begli ambienti, bambini molto festosi e socievoli.
Poi padre Edward ci ha portato a trovare le famiglie della sua parrocchia. Abbiamo fatto visita ad un sacco di persone e per tutto il tempo due bimbe del villaggio mi hanno accompagnato felici e orgogliose, tenendomi per mano. Tutti ci hanno fatto entrare in casa (Massimo ha dovuto fare molte flessioni per non battere la testa negli stipiti delle porte!), alcune case di mattoni e fango di due o tre stanze molto piccole, molte solo una stanza quasi tutta occupata da un letto). Ci siamo seduti sulle uniche due o tre sedie (di plastica) che possiedono e che in genere tengono accatastate da una parte, tutti ci hanno offerto qualcosa (caffè, un dolce, un biscotto) ma ovviamente abbiamo potuto accettare solo dai primi due o tre. Il parroco ci diceva i nomi delle persone, quanti figli, che lavoro fanno loro e i loro figli se sono grandi, quanti nipoti, e poi ci diceva: questi sono i parenti di quegli altri, questi sono cugini, questo è il fratello e il cognato…. naturalmente non mi ricordo più nulla, ma non importa…. Noi abbiamo stretto le mani agli adulti, fatto carezze ai bambini, sorriso e salutato tutti; loro erano molto contenti di ospitarci nella loro casa, anche se per pochi minuti, magari solo per una foto, gli anziani erano orgogliosi di farci sapere dei loro figli che studiano o che lavorano, i giovani di mostrarci i loro bambini. Il parroco ci diceva che qui arrivano ogni tanto degli stranieri o della gente dalle grandi città indiane, soprattutto medici, che interagiscono con le suore del lebbrosario, ma nessuna trova il tempo di andare a trovare la gente comune
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Domenica 7 febbraio

Oggi c’era in programma il pic-nic. Qui in inverno, specie nelle giornate di festa, la gente si diverte molto a fare quello che chiamano pic-nic. Consistono in raduni di persone all’aperto (ovviamente) in posti spaziosi dove la gente prepara il pranzo, poi mangia e infine balla, il tutto al suono di musica indiana da altoparlanti a tutto volume. In queste occasioni si portano grandi pentoloni per cucinare e recipienti per l’acqua, piatti di plastica o di foglie, magari dei grandi teli di nylon per sedersi. A loro non serve altro: non tavoli o sedie, né bicchieri, posate, o tovaglioli, neanche sacchi della spazzatura perché purtroppo lasciano tutto per terra. Siamo passati in dei posti molto famosi per essere meta di pic-nic, completamente pieni di piatti di plastica. Quando usavano solo i piatti di foglie si potevano permettere di lasciare tutto sui prati, ma ora che fanno lo stesso anche con i piatti di plastica il risultato è un disastro. Lo stesso succede per il chai (un thè con latte e spezie che bevono spesso), quando al posto delle tazzine di terra usano i bicchierini di plastica. Purtroppo l’uso della plastica (o del polistirolo) si sta diffondendo sempre più, con le conseguenze che potete immaginare, specie nelle città e nei villaggi, dappertutto mucchi di rifiuti di plastica.
Comunque, tornando al nostro pic-nic, si è svolto in un campo sportivo qui vicino, c’era parecchia gente, anche alcuni rappresentanti della municipalità, dato che era un pic-nic organizzato dalla e per la comunità. La preparazione del cibo viene fatta dagli uomini e, almeno in queste occasioni, le donne soltanto aiutano e i bambini giocano. Il cielo era nuvoloso e non c’era il sole che avrebbe portato il caldo, quindi stavamo proprio bene. Oggi abbiamo dovuto mangiare molto piccante, era il cibo che mangiavano tutti, come lo mangiano sempre, (in genere invece nei vari posti dove andiamo ci fanno la cortesia di preparare le pietanze meno piccanti del solito). Meno male che non abbiamo preso la “soup”, una minestrina bollente che loro bevono al bicchiere come antipasto, perché poi io l’ho assaggiata e oltre ad essere bollente era anche piccantissima. Non so come fanno a mangiarla anche i bambini! I bimbi comunque mangiano sempre le stesse cose dei grandi, per piccanti che siano. Il resto delle cose era buono, ma sempre lo stesso menù: riso, per l’occasione un po’ speziato, pollo al curry, patate, verdure crude affettate (cetrioli, cipolle, pomodori) senza condimento.

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Irene1

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