I giusti di oggi, tra xenofobia e nazionalismi

29 maggio 2016

Molte riflessioni si sono sovrapposte in queste settimane dentro di me, sull’idea di bene e di giustizia. Le tragedie, purtroppo quotidiane, dei migranti, i dati sulla povertà anche nel nostro Paese, le atrocità consumate in Siria, il cui popolo è schiacciato in una morsa tra l’Isis e la dittatura, Idomeni, le migliaia di storie che attraversano Lesbo e Lampedusa, diventate isole-simbolo di umanità e accoglienza, il nuovo muro minacciato dall’Austria al Brennero e l’escalation di forze politiche xenofobe in Europa e nel mondo.
In questo contesto di pensieri e di fatti si è inserito il pellegrinaggio ai campi di sterminio di Austria e Germania con l’Aned-Associazione Nazionale Ex Deportati e oltre duecento ragazzi delle scuole della Provincia. È stato come andarci per la prima volta, i loro sguardi mi hanno offerto mille prospettive nuove e fresche dalle quali osservare le cose, energia anche per il volontariato con gli amici di Bhalobasa.

Sul pullman il passato offriva a tutti stimoli per commentare il presente, parlavamo di uguaglianza, di superamento di ogni tipo di discriminazione e le mie riflessioni su bene e giustizia, che maceravano dentro, hanno attinto forza e concretezza dalle parole di quei bimbi, come li chiamavo con affetto e complicità. Quello che diceva Simone Weil era lì, in quegli occhi smisurati, spesso allagati dalla passione, dal dolore o dalle risate che, malgrado tutto, scoppiavano continue e belle: “la giustizia comincia dal particolare, dall’attenzione che si posa, dallo sguardo che non viene distolto”. E quei ragazzi lo sguardo non lo hanno mai distolto, neanche quando gli occhiali, a volte due misure sopra, si appannavano. Loro, irriducibili anche se stanchi, insistevano per sapere tutto, vedere tutto, ascoltare tutto. Facevano molto male certe testimonianze, ma ci siamo alla fine detti che sanguinare di conoscenza e avere un peso non ben localizzato che toglie il respiro e non fa pensare ad altro può essere solo un bene. Fa da stimolo, spinge alla ricerca, allo studio, al viaggio, al dialogo, al confronto a un approfondimento mai pago di visioni superficiali e demagogiche, che raramente tengono conto davvero dell’essenza dell’uomo. “Nessuno può tenere prigionieri i cuori degli uomini buoni”, la frase più bella della testimonianza che ci ha lasciato Roberto Camerani, deportato a Ebensee.

Nei campi, alta, ferrea, a sfidare la volontà di annientamento fisico e psichico dei Nazisti, si stagliava l’umanità. Un’umanità dolente, denutrita e torturata che non si arrendeva, corrodendo con la solidarietà e l’amicizia anche la più grande e organizzata macchina dello sterminio. I deportati si aiutavano, dividendo il pochissimo cibo a disposizione, riscaldandosi con la vicinanza e prendendosi cura gli uni degli altri con parole, ricordi, poesie, carezze, sentimenti da tenere vivi e ritrovare. Questa vocazione dell’uomo alla generosità, alla fratellanza, può essere la strada, può aiutarci a non perdere mai il filo, la speranza. In ogni pagina nera della Storia, in ogni genocidio e crimine contro l’umanità, in ogni guerra e distruzione le storie degli uomini che nonostante tutto hanno perseguito il bene e la salvezza degli altri rappresentano ciò che può salvarci, la bellezza del particolare, della relazione, degli incontri.

Gli uomini giusti, come dice Gabriele Nissim, non sono né santi né eroi, in ogni epoca, ogni giorno, si presentano sulla scena quando esiste uno spazio vuoto, quando le istituzioni prendono una china pericolosa, quando l’orientamento dell’opinione pubblica si fa trascinare dalla paura, dall’indifferenza o addirittura dall’odio. Li guida un sentimento spontaneo di misericordia e una sorta di istinto del bene. Come Italo Geloni, l’ex deportato politico i cui figli Laura e Paolo ogni anno conducono centinaia e centinaia di ragazzi ai campi di sterminio. Quando, durante gli incontri nelle scuole, i ragazzi a bocca aperta per i suoi racconti gli dicevano: “sei un eroe!”, lui, persona sempre mite e gentile, si arrabbiava e tuonava: “no! Ho fatto solo il mio dovere”. Una frase semplice, che però può cambiare il corso della storia.
Oggi i giusti sono coloro che, come ha fatto Italo nei due anni di prigionia e violenze e in tutta la sua vita, non si fanno mai prendere dall’odio, si battono contro le discriminazioni, si prendono cura degli altri, cercano di costruire esperienze di dialogo, convivenza e condivisione, con persone di cultura e religione e idee diverse. Ognuno di noi è chiamato a essere giusto, a scegliere il bene quotidianamente, perché anche se sono tempi molto difficili scegliere è possibile.
Mi vengono in mente due esempi, due persone semplici e comuni che sono diventate due riferimenti, sebbene in modo diverso, sebbene in tempi lontani. Etty Hillesum e Antoine Leris.
La prima, morta giovane ad Auschwitz dopo una vita particolarmente travagliata, che scriveva: “una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso, se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, e se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa in diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo”.
Il secondo è un giornalista francese che ha perso la moglie durante l’attentato dell’Isis al Bataclan a Parigi ed è rimasto solo con il figlio di appena 17 mesi. Sembra riprendere le parole di Etty quando, nell’immediatezza del lutto, scrive: “aiuterò mio figlio a tenere gli occhi aperti sulla cultura, libri, musica, arte e su tutto quello che fa vedere il mondo come un prisma, l’opposto di come lo vedono i terroristi. Spero di dargli armi di carta, di penna, di note e non kalashnikov. Penso che sia indispensabile fare lo sforzo di scegliere il cammino più lungo, complesso, duro. Quello della ragione, della riflessione e del perdono”.

Oggi, come ieri, i nazionalismi vedono in persone anche solo apparentemente “diverse”, negli oppositori politici, nelle persone più sofferenti e stremate, in fuga da regimi criminali, guerre e fame, i nuovi nemici. Così coloro che ci chiedono aiuto e assistenza, invece di ispirare dentro di noi amore e solidarietà, vengono presentati, senza sosta, come un pericolo. I movimenti xenofobi alimentano scientemente la paura e l’incertezza verso il futuro e la gente, comprensibilmente, perde fiducia. Anche negli altri.

Possiamo e dobbiamo trovare una strada nuova. E come? Le risposte più intense e convincenti a questo interrogativo sono quelle che ci danno le tantissime persone comuni che trovano la forza di non odiare, di aiutare, di amare, di non voltarsi dall’altra parte. Ascoltiamole.

Warren Richardson Hope for a New Life Un uomo passa un bambino sotto il filo spinato al confine tra la Serbia e l'Ungheria a Röszke, in Ungheria, 28 agosto 2015. (World Press Photo)
Warren Richardson
Hope for a New Life
Un uomo passa un bambino sotto il filo spinato al confine tra la Serbia e l’Ungheria a Röszke, in Ungheria, 28 agosto 2015.
(World Press Photo)

2 Commenti

Gianmarco
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Grazie Simona per condividere queste riflessioni con riferimenti importanti. È vero che la strada più lunga forse è anche in salita, ma è la sola che vale la pena percorrere.

3 giugno 2016
simona
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Concordo! È davvero la sola che vale la pena percorrere. Un abbraccio Gimmy, grazie.

5 giugno 2016

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