Francesca, riflessioni post viaggio

8 novembre 2016

di Francesca Salcioli

Atterrare la notte in un paese sconosciuto e affinare tutti i sensi, escluso la vista, per capire cosa c’è intorno a me. E’ come passare i mesi prima della partenza e pensare a cosa mi aspetta. Immaginare la lentezza, il tempo scandito dal sole, il valore di ogni singolo gesto, percezioni nuove. Immagino che tutto sia autentico, che niente stia al posto di altro. Non c’è da nascondere, da strafare o da dimostrare. Semplicemente c’è la possibilità di essere e di stare in contatto. Relativizzare i problemi, dare valore a ciò che davvero conta, ripulirsi di sovrastrutture, dell’eccessivo, del troppo. Toccare con mano quello di cui spesso ho sentito parlare, senza luoghi comuni, senza frasi fatte, non per sentito dire. Ho bisogno di credere che qualcosa di concreto può essere fatto. Mettere dentro una valigia l’indispensabile e capire che la roba che ci sta dentro è fin troppa, che non servirà. E che non serviranno le aspettative che ho, perché non sarò mai abbastanza preparata a un’esperienza personale così forte e sfaccettata.

È difficile mettere a fuoco questa esperienza, sono tanti gli aspetti sociali, umani e intimi con cui si entra in contatto. Sono passati due mesi dalla fine del viaggio e ancora cerco di mettere ordine e ho difficoltà a cogliere cosa emerge. E’ stato un viaggio intenso di momenti, spostamenti, relazioni, incontri, pensieri, riflessioni. Mi vengono in mente due luoghi simbolo di questo viaggio e li descriverò attraverso alcune pagine del mio diario. Contrasti è la parola chiave che per tutto il viaggio ha gestito le mie emozioni.

TANZANIA ISOLA di BUMBIRE e IROBA

Trovarsi di fronte a uno dei laghi di acqua dolce più grandi della terra, attraversarne una parte e sentirsi nella pancia del mondo. Ci dirigiamo con una barca verso l’isola che ci ospiterà per due notti. Una schiera di grandi e piccini ci aspetta sulla riva. Ci chiamano, ci salutano, sorridono, sono incuriositi. Nemmeno il tempo di scaricare i nostri bagagli dalla barca che tante mani, più o meno piccole, prendono velocemente i nostri bagagli per caricarseli in testa e sulle spalle…così la carovana di persone inizia a camminare per il sentiero, seguita dai nostri sguardi affascinati. Arriviamo alla parrocchia del villaggio. Panorami e scorci bellissimi: strade di terra rossa, banani, alberi da frutto di ogni genere, le sfumature del sole al tramonto, gli odori, il silenzio. Pascal, il nostro referente, lancia una palla a un gruppo di bambini. I bambini corrono scalzi tra pietre, sassi e terra, cadono senza accorgersene e si rialzano eccitati per inseguire il pallone. La calma al calare della sera e la pace nel cuore, la vicinanza tra persone appena conosciute che condividono silenzi, pensieri e emozioni. Il tempo in Africa non lo scandisce l’orologio ma la natura. La mattina ci svegliamo per andare alla Messa. La chiesa, una distesa di paglia morbida e qualche panca sotto a una tettoia di legno. Davanti a noi l’immensità del lago Vittoria, ai nostri piedi qualche gallina. Pian piano vediamo arrivare dalla collina delle persone: composte, ordinate, in punta di piedi, eleganti nei loro abiti sgargianti e nelle movenze. Non sono praticante e nemmeno credente. Ho seguito la celebrazione con trasporto e commozione, ho percepito un’energia pura e partecipata. I bambini, elemento centrale di tutta questa esperienza. Cosa c’è nella profondità dei loro occhi? Molti bambini hanno fame, ma soprattutto sono affamati di amore, di calore umano. Dieci bambini attaccati alle braccia di ognuno di noi, bambini che ci travolgono ma allo stesso tempo si avvicinano con rispetto, senza pretendere niente. Impotente davanti a loro, immobilizzata, in grado di fare niente, solo di sorridere, di accarezzare.
Dalla gioia all’angoscia è un attimo. Un’immagine tra tante, il brivido, la rabbia, l’impotenza e il senso di colpa che ho provato davanti a due genitori che stringono tra le braccia il loro bambino morente perché non ci sono i soldi per arrivare in ospedale.

LO SLUM

Che ti stai avvicinando a uno slum lo capisci dall’odore e dal fumo nel cielo. Odore acre di sterco e carburante, è un odore che penetra violentemente, che per giorni rimane dentro al naso. Lo slum è un labirinto di strade sempre più strette, che sembrano fosse, dove si cammina scorrono le fogne. E’ una discarica a cielo aperto, è un ammasso di lamiera e coperte marce, bambini poveri, seminudi, o con vestiti di cui non si riconosce più il colore. E’ un fiume nero, è polli e pulcini che mangiano nella spazzatura. Non ci sono i bagni, non c’è acqua, ma ci sono adulti e bambini che devono fare i conti con i bisogni fisiologici quotidiani, con l’igiene, la dissenteria. Molti bambini corrono scalzi, i più fortunati hanno le scarpe, di qualche numero più grande, chi è meno fortunato ha una scarpa sola. E mi chiedo cosa prova un bambino ad avere una scarpa sola. Le case sono tane di tre metri quadrati in cui dentro possono vivere in 20 persone. E’ difficile per noi chiamarle case, topaie rende meglio l’idea. Ma per loro sono case, è tutto ciò che hanno. Case in cui viene pulito lo sporco sullo sporco, case in cui ci accolgono e ci ringraziano. Però nonostante la fame, la morte e il dolore, i bambini sorridono, e mi lasciano spiazzata, anche se i bambini e le persone dello slum hanno un velo opaco e impenetrabile nello sguardo. Sono riuscita a camminare all’interno dello Slum solo creando una sorta di distacco emotivo, una specie di de personificazione. Quello che stavo vivendo era fuori da me, riuscivo a osservarlo solo come una sorta di documentario.

Vivere realtà così diverse e inevitabilmente fare i conti con la propria vita. Tutto si ridimensiona, tutto cambia di valore. Il senso di colpa per ciò che ho e per ciò che non apprezzo. In Africa credo che nessuno conosca la parola stress, pane quotidiano per molti di noi occidentali. Quando provi a descrivergli cosa è l’ansia gli Africani ti guardano con due occhi incuriositi e ridono. Eppure la capitale dell’Uganda, Kampala, è una città caotica, grande traffico con poche regole, uno smog irrespirabile, tanta, tantissima gente. Cosa mi colpisce è la calma delle persone in questo grande caos, in pochi si arrabbiano, nessuno corre. E io inevitabilmente capisco quanto sporco la mia vita di cose superflue, di diversivi inutili. In Africa si muore per mancanza di un antibiotico, perché non si può pagare il medico o perché il medico è troppo lontano. Si muore per mancanza di igiene. Si muore perché il territorio paga il prezzo salato di anni di sfruttamento e perché l’Africa paga il prezzo della sua vastità, le distanze in Africa sono interminabili. Ho capito che in Europa si rischia di morire per le stesse cose, in senso opposto. Tutto quello che a loro manca e che gli potrebbe migliorare la vita è quello che a noi, se non usato correttamente, potrebbe peggiorarla. Questa esperienza in Africa la desideravo da tantissimo tempo…ma devo essere sincera, non sono riuscita a godere a pieno degli sguardi, dell’accoglienza, dell’autenticità. Non sono riuscita a mettere a fuoco l’Africa, è l’Africa che però è riuscita a mettere a fuoco me e mi ha permesso di entrare in contatto con una parte dolorosa e profonda con cui ancora sto facendo i conti. Involontariamente ho usato l’Africa come metro di misura della mia vita.

E ora con tutto questo cosa ci posso fare?
È un’energia che deve essere canalizzata in modo costruttivo altrimenti rischia solo di rendermi passiva e impotente. Bhalobasa è una delle risposte concrete e propositive. Ancora una volta ho apprezzato il lavoro paziente, rispettoso e concreto di questa associazione. Ho capito ancora meglio il senso della cooperazione, di avere un pensiero costruttivo privo di pregiudizio, di cosa significhi non calare dall’alto il proprio pensiero ma aiutare dall’interno. Credo che questa esperienza possa essere intrapresa da chi lo sente vivamente dentro al cuore, ma con la consapevolezza che il viaggio sarà principalmente interiore e che la vera partenza sarà al ritorno.

francesca

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